Martina e il suo rosario

di Gabriele Laffranchi

Tutti i sabati bisogna pranzare velocemente perché alle 14.00 in punto siamo già in macchina con la chitarra nel baule. Si va in parrocchia. Da circa quindici anni la San Carlo è presente nel quartiere della Magliana, alla periferia di Roma. Un quartiere popolare, abitato ancora da famiglie autenticamente romane: sempre un po’ in ritardo e con un’ironia spiccata.

Alle 15.30 comincia la Compagnia di San Paolo, gruppo di ragazzi delle medie con cui io, Beppe (un altro seminarista), suor Francesca, suor Eleonora, Sandro, Manuela e don Dino passiamo insieme il pomeriggio tra canti, giochi e un po’ di lezione di catechismo. Quelli di prima media si stanno preparando per la cresima. Alle 15.30 bisognerebbe iniziare, ma si parte sempre un po’ dopo… nel frattempo c’è spazio per improvvisare una partita di calcio nel campetto dell’oratorio, grandi contro piccoli. Io mi sento piccolo. Vengo da Milano e non sono riuscito a nasconderlo: quando chiamo i ragazzi metto sempre l’articolo prima del loro nome. “Il Lorenzo”, “la Leti”, “il Tommy”. Così per loro sono diventato “il” Gabriele.

Finiamo sempre con una decina del rosario recitata in ginocchio nella cappella vicino alla chiesa. A me è affidato anche Pietro, un ragazzo molto sveglio che per problemi muscolari deve essere accompagnato in ogni spostamento. La prima volta che siamo andati in cappella gli ho chiesto se avesse un rosario. Mi ha risposto di no, così gli ho regalato il mio.

La seconda volta ci siamo messi in ginocchio, gli ho chiesto dove avesse il rosario e mi ha risposto che non ce l’aveva più. Un po’ amareggiato per il fatto che non avesse conservato con attenzione il dono che gli avevo fatto, mi sono messo al suo fianco per pregare. «Alla fine la preghiera e il valore di quel momento non è determinato dal fatto che si abbia tra le mani un rosario o meno», mi ripeto tra me e me.

Il grande tesoro
Un altro sabato. Dopo aver parlato della Creazione e del peccato originale, questa volta affrontiamo il miracolo dell’Incarnazione, la grandezza e la semplicità con cui Dio ha voluto che l’uomo tornasse ad essere Suo amico: Dio stesso si è fatto uomo, ha chiamato a sé degli amici e loro hanno invitato in questa amicizia le persone care.

Chiedo ai ragazzi di scrivere su un foglietto chi sia la persona attraverso cui hanno incontrato Gesù. Tanti scrivono «la mamma» o «il papà», qualcuno scrive «la nonna», molti «la Compagnia di san Paolo»… Uno scrive «Martina».

«Chi ha scritto “Martina”?». Pietro alza la mano. «Martina non è mica la tua sorellina di 3 mesi? Come puoi dire che lei ti ha fatto conoscere Gesù?».

Lui, con la sua tranquillità, ma con l’emozione di chi sta per svelare agli altri il suo grande tesoro, risponde: «È vero, ma io ho chiesto per tanti anni a Dio una sorellina, e lui con l’arrivo di Martina mi ha risposto».

Silenzio. Tutti fanno silenzio, anche i più casinisti. La lezione prende una nuova piega, ognuno inizia a pensare nuovamente a quello che aveva scritto e perché. I ragazzi iniziano a parlare della loro vita.

Il lettino nuovo
Sono le 18.20 e dobbiamo andare in cappella. Accompagno Pietro, ci sistemiamo e ci riprovo: «Pietro, dov’è il rosario che ti avevo dato?». Mi risponde: «Scusami, ne ho portato un altro, perché quello che mi hai regalato tu l’ho messo nel lettino nuovo che abbiamo comprato per mia sorella Martina». Non c’è più niente da dire, ma da pregare insieme a quei ragazzi che mi fanno scoprire una semplicità di cui anch’io ho bisogno.

tratto dal sito della Fraternità San Carlo
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